Il danno tanatologico: riflessioni su ulteriori possibili profili di configurabilità

La Corte di Cassazione civile, con sentenza n. 15706/10 del 02/07/2010, si è pronunciata nella direzione secondo cui la lesione dell’integrità fisica con esito letale è configurabile come danno risarcibile agli eredi solo se sia trascorso un lasso di tempo apprezzabile tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte; in questo caso è configurabile un danno non patrimoniale risarcibile e trasferibile agli eredi iure hereditatis.
Successivamente, la Terza Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza del 24/03/2011, n. 6754, stabilisce, nel contesto del danni non patrimoniali trasmissibili agli eredi, e con particolare riferimento al danno tanatologico ovvero danno “catastrofale” in quanto danno morale che discende dalla devastante percezione in capo alla vittima dell’approssimarsi delle morte, che lo stesso non è risarcibile qualora il defunto non abbia avuto una lucida cosciente percezione della sua condizione, prima del sopraggiungere del decesso.
Prescindendo in tale sede dal ripercorrere il lungo cammino giurisprudenziale che ha visto succedersi numerose pronunzie delle nostra Suprema Corte al riguardo, con sovente alternarsi di posizioni contrastanti in senso più restrittivo ovvero più “elastico” in punto riconoscibilità del danno tanatologico, emerge in ogni caso come soccorra sicuramente in magistratura e in dottrina una “sensibilità” in relazione a tale danno non patrimoniale, pure in un contesto di difficile dimostrazione sia sotto il profilo probatorio che di quantificazione.
L’Osservatorio Giuridico del Tribunale di Milano, che per la prima volta pochi anni fa ha provveduto addirittura a tabellare con riferimenti economici la quantificazione del danno tanatologico, in precedenza valorizzato esclusivamente “in via equitativa”, correlandolo con un sistema “a scalare” in relazione al decorrere dei giorni di sopravvivenza cosciente, rivela la necessità sentita tra gli operatori del diritto di dare istituzione certa a tale danno, anche se, il tentativo del Tribunale meneghino non consente comunque di superare le difficoltà sostanziali.
Si palesa infatti molto complicato stabilire preliminarmente il limite del cosiddetto “lasso temporale apprezzabile”, come sovente è di ardua sostenibilità probatoria la condizione di “lucida agonia”, ovvero la dimostrazione che la vittima, pure temporaneamente sopravvissuta, fosse in condizioni di percezione dell’approssimarsi della morte, e che la stesse effettivamente percependo, circostanza da cui discende il danno stesso di cui ci occupiamo, quale danno morale tra i più “crudi e atroci” in termini di sofferenza interiore.
Trattasi in ogni caso di tipologia di danno a cui viene riconosciuta una sua possibile sussistenza e soprattutto una sua distinzione e differenza nella sua genesi dal danno morale “classico” correlato ad una lesione e quale sofferenza interiore soggettiva, individuando tale figura in un “danno conseguenza” che sorge come diritto al risarcimento in capo alla vittima stessa prima del decesso, e successivamente trasmissibile agli eredi.
L’impegno della nostra giurisprudenza nel riconoscere il danno tanatologico, conseguenza di una comprensibile attenzione, è sicuramente ammirevole, tuttavia vi è da affermare che questa “sensibilità” giuridica, è assente nella maggior parte dei casi ove, nonostante il timore della morte in capo alla vittima di fatto illecito sia con tutta evidenza rilevabile, il decesso successivo non intervenga.
Infatti, il danno catastrofale è quasi sempre sostenibile nei soli casi in cui dopo l’evento, e successivamente ad un periodo di sopravvivenza, pure con le caratteristiche sopra descritte, il decesso sopraggiunga.
Invero, non si intravede la ragione e il sillogismo logico per il quale il danno tanatologico, come rappresentato, debba configurarsi solo nel caso di morte successiva: la genesi del danno di cui trattasi infatti, non è la morte in se della vittima, bensì la percezione che quest’ultima ne ha del suo approssimarsi, e pertanto, non si comprende per quale motivo in tutti casi in cui il danneggiato da fatto illecito viva il timor di perdere la vita, tuttavia salvandosi, il danno morale conseguente non possa essere assorbito nelle casistiche tipiche del danno catastrofale.
Immaginiamo un soggetto, che a seguito di un grave sinistro stradale, subisca delle lesioni gravissime, e che lucido e cosciente venga trasportato in ospedale per un intervento di urgenza, che fortunatamente ha esito positivo, e chiediamoci perché, l’angoscia che ha vissuto di perdere la propria vita, atteso che questa paura, come abbiamo visto da parte della nostra magistratura è potenzialmente degna di tutela giuridica, non debba vedersi riconoscere il danno catastrofale parimenti agli eredi di un soggetto che invece deceda: la paura e l’angoscia a cui ci si riferisce è la medesima, mutando solo il beneficiario dell’eventuale risarcimento, poiché nel primo caso sarebbe la vittima stessa, nel secondo i suoi eredi che beneficiano di una migrazione ereditaria di un credito che in ogni caso è sorto in capo alle vittima diretta mentre era ancora in vita, ragione per la quale si prevede un “ lasso temporale apprezzabile” proprio perché il credito si generi.
Analoghe considerazione di incoerenza logica nell’esclusione richiamata, possono svolgersi nel caso di soggetto, che a seguito per esempio di rovina di edificio, resti imprigionato sotto le macerie dello stesso per giorni, prima di esserne estratto ancora in vita, ovvero nel caso di due genitori, riferendoci ad un eventuale danno indiretto-conseguenza, che si trovino nella sala di aspetto di un pronto soccorso di un ospedale, e che stanno temendo per la morte del giovane figlio vittima di un sinistro stradale, che fortunatamente i medici riescano poi successivamente a salvare.
In sintesi, è evidente come sia priva di fondamento la circostanza che il danno tanatologico, per essere riconosciuto in termini risarcitori, debba necessariamente presupporre il sopraggiungere del decesso effettivo, essendo sufficiente, attesa la genesi del danno stesso, la paura dimostrata di morire.
Naturalmente si comprende come, queste ultime considerazioni sopra svolte, debbano essere circoscritte a casistiche di eventi con caratteristiche di “gravità” evidenti, come quelle esemplificate, fatta salva l’esclusione presupposta di tale danno in tutti casi che non presentino particolari circostanze catastrofali, al fine di non incorrere in fenomeni speculativi e di duplicazione risarcitoria con un eventuale danno biologico psichico che si manifesti in capo al danneggiato nel corso del tempo successivo al fatto storico, nel lungo periodo, e a invalidità permanente stabilizzata.
Dott. Andrea Milanesi
Responsabile tecnico