Il dimenticato “danno da perdita della vita”: approfondimento con un possibile diverso approccio

Gli anni 2013/2014 sono stati caratterizzati nel mondo della dottrina giuridica in materia di responsabilità civile da importanti discussioni e confronti in riferimento al cosiddetto danno da “perdita della vita”.
Nel novembre del 2013 infatti, con sentenza pubblicata nel 2014 (nota come sentenza Scarano), la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione affermò che esiste un diritto al risarcimento del danno che discende dalla “perdita della vita in sé”, a prescindere da una eventuale durata temporale di un periodo di sopravvivenza intercorrente fra il fatto violento e il decesso della vittima.
Sostanzialmente hanno affermato che anche nel caso di morte istantanea, che quindi non contempla il costituirsi di un danno morale correlato alla percezione che la vittima ha avuto dell’avvicinamento della morte proprio perché immediata, e quindi pure in assenza di “lucida agonia” quale presupposto del danno tanatologico ovvero catastrofale, sorge un diritto a vedere risarcire il “bene vita” iure ereditatis ai congiunti della vittima.
Gli ermellini della terza sezione civile è come avessero affermato che la vita ha un valore, in quanto bene unico ed insostituibile, e che questo valore non ha nessuna correlazione con il danno morale che discende dal percepimento di perderla, con la conseguenza che il “prezzo della vita umana” qualora perduta per fatto violento altrui assegna ai congiunti/eredi del deceduto un diritto a vedersela risarcire in rispetto all’asse ereditario.
Naturalmente l’assunto afferma il cumulo con l’altro danno di cui beneficiano i congiunti come risarcimento, il danno morale da lutto a titolo iure proprio per la loro sofferenza interiore.
A seguito della richiamata statuizione gli animi in dottrina si infiammano e si dividono, fra tradizionalisti, vicini alla più radicata giurisprudenza nel tempo che da sempre ha escluso la possibilità di un valore al danno “evento” diverso dalla “conseguenza”, e gli avanguardisti che invece si sono addirittura spinti ad affermare che il mancato riconoscimento di un valore alla vita sarebbe contrario e lesivo della coscienza sociale nel suo comune percepire l’esistenza come un bene.
La discussione tuttavia dura poco poiché nell’immediato biennio successivo la Cassazione a Sezioni Unite questa volta, si pronuncia escludendo in modo granitico e chiaro la configurabilità del risarcimento del danno da perdita della vita.
Le motivazioni portate sono condivisibili, logiche e offrono pochissimi profili di censura.
La Suprema Corte infatti afferma la sussistenza di un bene vita, tuttavia precisando che trattasi di un diritto esclusivo della persona finchè è in vita appunto, tanto che penalmente l’ordinamento ne prevede la perseguibilità in caso di perdita in capo al reo, non ammettendo tuttavia la possibilità che possa migrare agli eredi un diritto che “ sorge e si elide” nello stesso momento della morte, atteso che in capo al deceduto, potenzialmente unico beneficiario del relativo risarcimento, non si formerebbe il credito stesso, proprio perché morto istantaneamente.
Nel caso di morte cagionata da fatto illecito, afferma la Suprema Corte a sezioni unite nell’anno successivo, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita” che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente.
Sul fronte della tutela giuridica la giurisprudenza ha di fatto posto una netta demarcazione tra il bene vita rispetto alla salute. La Corte Costituzionale per prima (con la pronuncia n.374/1994) ha affermato la distinzione tra i due beni. Il danno alla vita ed il danno alla salute sono ontologicamente differenti, escludendo la possibilità di sovrapposizioni concettuali.
La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte, diverse essendo, ovviamente, le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in quanto tali e non in quanto eredi.
Risulta agevole condividere quanto sopra, essendo caratterizzato da una logica giuridica quasi incontestabile, tanto è che l’orientamento al riguardo fino ad oggi non è più mutato.
Tuttavia, vogliamo in questa sede svolgere alcune considerazioni di approfondimento, senza naturalmente attribuire alle stesse il rango di motivo di rivisitazione, ma quanto meno di riflessione potenziale.
Si premette in primo luogo che il nostro argomentare è totalmente scevro da riferimenti alle effettive ed incontestabili difficoltà concrete di attribuire un valore economico al bene vita, ovvero individuare un principio di calcolo e parametro per arrivare ad attribuirlo, oltre che estraneo a paragoni con le logiche sottese alle previsioni contrattuali delle polizze infortuni “ caso morte”, che pure seguono l’asse ereditario in base ad un sinallagma fra la assicurazione e la vittima quando è ancora in vita.
Inoltre, e quale ulteriore premessa, affermiamo come assoluta la nostra condivisione quando si afferma che il bene vita, qualora leso, non può fare sorgere alcun credito in capo al deceduto e che pertanto nessun credito può migrare agli eredi.
Il nostro approccio alla riflessione nasce “molto più da lontano”, attraverso un parallelismo per comparazione di temi, approfondendo quanto negli ultimi anni l’Osservatorio Giuridico del Tribunale di Milano ha affermato in materia di danno morale da lutto, ovvero l’avere correttamente precisato che nonostante alcuni rapporti parentali attribuiscano in re ipsa un diritto al risarcimento per la sofferenza correlata alla perdita (si pensi al rapporto padre e figlio), è fatta salva la possibilità per il responsabile/assicurazione di dimostrare a mezzo di prove e strumenti istruttori la insussistenza della affectio parentalis in casi specifici di lontananza fisica e emotiva fra la vittima e il superstite, escludenti pertanto, se provati, il diritto al risarcimento dato per presunto.
Trattasi nella realtà di casi rari, che tuttavia consentono a volte, e soprattutto negli ultimi anni, di sollevare motivi di eccezione nella quantificazione dei danni durante le trattative da parte delle Compagnie di Assicurazione.
Tuttavia, se è vero e condivisibile quanto sopra sotto il profilo della possibilità di superare per prove la presunzione di sofferenza in certi rapporti parentali, non è vero in senso inverso il contrario, quanto meno sotto l’aspetto della incapacità istruttoria di fornire prova contraria in riferimento ad un affectio parentalis che nel momento della morte non era in essere, ma che proprio in forza del legame parentale anagrafico si sarebbe potuta instaurare e concretizzare in futuro, almeno potenzialmente.
In altri termini sosteniamo che l’assenza di legame e affezione, per esempio fra un padre e un figlio in un determinato periodo della vita, non significa necessariamente che lo stesso non possa instaurarsi in un momento successivo, in taluni casi proprio ricercato e desiderato in forza del rapporto di consanguineità.
Il diritto successorio ed ereditario infatti, in tutti gli ordinamenti occidentali attribuisce all’essere consanguinei un valore in se, tanto che la quota di legittima ereditaria sussiste a prescindere dall’affetto e dalla componente sentimentale dei rapporti.
Naturalmente non è possibile pretendere l’applicazione di tale principio nell’ambito dei danni da sofferenza, che presuppongono un’affezione fra vittima e superstite, tuttavia e parimenti, il non prevedere un riconoscimento del diritto al risarcimento implicito al danno stesso di avere privato un figlio, fosse anche solo della potenzialità di recuperare un rapporto con il proprio genitore, in quanto illecitamente ucciso, potrebbe essere una lacuna nella tutela dei diritti.
Pertanto, atteso che dimostrare l’eventualità futura dell’instaurarsi della affezione parentale, è prova impossibile, il solo strumento per dare tutela al risarcimento del danno che discende dalla sola lesione della possibilità potenziale di instaurarlo, proprio perché si può presumere che potrebbe essere in futuro cercato in forza della consanguineità stessa, è attribuire un valore a prescindere, diverso naturalmente dai parametri utilizzati per quantificare il danno morale da lutto, al ruolo stesso di padre ovvero di figlio, coniuge oppure fratello.
Si arriverebbe così alla possibilità astratta di prevedere una forma tabellare di valori da attribuire al ruolo fra consanguinei, che prescinde dal danno morale da lutto, naturalmente non cumulabile mai con quest’ultimo, tuttavia applicabile in tutti i rari casi in cui il responsabile dimostra la insussistenza della affectio parentalis limitata al periodo premorte.
Ricordiamo che tale approccio valutativo è non molto dissimile dalle forme “quasi indennitarie” del caso morte da responsabilità civile in certi paesi di cultura teutonica e d’oltralpe.
In ogni caso, il lungo percorso di analisi del tema che abbiamo affrontato nei paragrafi precedenti, in forma atipica e non certamente in termini iure ereditatis, potrebbe consentire di individuare una modalità per sostenere giuridicamente e in ambito iure proprio, seppure in casi molto più circoscritti, la sussistenza e la risarcibilità di un danno da perdita della vita, inteso non come estrema lesione del bene salute in capo alle vittima, ma come valore da attribuire a prescindere al ruolo anagrafico ( con conseguente affectio anche solo potenziale), che la stessa aveva per il superstite.
In sintesi, si tratta della possibilità, in forma totalmente diversa dalla Terza Sezione Civile della Cassazione dell’ormai lontano 2013, di iniziare un percorso di riflessione per colmare una potenziale lacuna di copertura di tutela giuridica in taluni casi specifici, proprio attribuendo un valore al bene vita, inteso come ruolo in relazione ad una potenziale futura affezione con il superstite, anche se al momento e precedentemente al decesso non si era ancora instaurata ovvero si era temporaneamente interrotta.
Al riguardo, ed in conclusione, ricordiamo come un percorso logico analogo è stato seguito dalla giurisprudenza più recente in materia di danno da perdita del feto in caso di errore sanitario, in relazione al diritto al risarcimento anche a favore del padre per il potenziale figlio mai nato, e per il quale, ci si riferisce appunto al principio di danno da lesione del diritto alla genitorialità, che riflettendo approfonditamente, si comprende che per sua stessa esegesi non vi è motivo di circoscrivere al solo periodo pre nascita, dovendo invece affermare che perdura come diritto per tutta la vita del superstite, fosse anche appunto solo potenzialmente.
Andrea Milanesi
Responsabile tecnico