Stato costretto al risarcimento per la morte di un soldato
Bosnia, fine anni ‘90. Un caporalmaggiore dell’Esercito Italiano, pilota di mezzi cingolati, entra in contatto con particelle tossiche prodotte dall’esplosione di proiettili composti da uranio impoverito. Al rientro dalla missione l’uomo muore in seguito ad una patologia tumorale.
Sia Tribunale che Corte d’Appello accolgono, dapprima, la richiesta di risarcimento, in capo al Ministero della Difesa, avanzata dai familiari del soldato. All’apparato viene imputato, infatti, di non aver previsto l’adozione di misure di sicurezza preventive, idonee a ridurre al minimo i rischi per la salute dei componenti dell’esercito.
Dello stesso avviso anche i giudici della Cassazione: è indiscutibile il nesso causale tra l’esposizione all’uranio e l’avvento della patologia tumorale.
Nel dettaglio chiariscono – con ordinanza n. 24180/18 depositata il 4 ottobre 2018 – che non solo è certo il collegamento tra attività condotta in missione dal soldato e malattia sopraggiunta, ma è anche indubbio il comportamento colposo dell’autorità militare che non ha informato adeguatamente il proprio personale in servizio, non ha valutato correttamente gli elementi di rischio né ha predisposto misure di protezione individuale che potessero, quantomeno, proteggere gli individui.
Per questi motivi la richiesta viene definitivamente accolta.