Danni causati da animali domestici
Il tema della responsabilità per i danni cagionati da animali è tutt’altro che banale e vanta radici storiche. Le prime regole scritte sull’argomento risalgono infatti al diritto romano, allorché l’uomo era solito servirsi di animali per lo svolgimento delle proprie attività produttive.
L’articolo 2052 cod. civ. stabilisce che il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito.
Si tratta di una delle figure speciali di responsabilità previsto dal codice civile, cui si applica una disciplina in parte derogatoria rispetto a quella prevista dall’articolo 2043 cod.civ.
La norma è spesso accomunata alla responsabilità da cose in custodia di cui all’articolo 2051 cod.civ. per presupposti e caratteri, oltre che per natura giuridica.
Identici sono infatti l’onere della prova (si può essere esentati da responsabilità solo se si prova il caso fortuito) e i presupposti delle due norme: in entrambi i casi, infatti, rileva l’esistenza di un rapporto di custodia, con la differenza che nel primo la custodia riguarda oggetti inanimati e nel secondo animali.
Secondo la tesi tradizionale è da ritenersi responsabile chiunque abbia il potere di controllo sull’animale, ovvero il potere effettivo esercitato su questo. Responsabile sarebbe quindi chiunque custodisca l’animale, a qualunque titolo.
A sostegno della tesi si cita il dato testuale della norma che precisa che chi si serve dell’animale è responsabile sia che l’animale fosse smarrito, sia che fosse sotto la sua custodia.
Non tutta la dottrina concorda con tale approccio. Una parte di questa infatti, ritiene che la responsabilità non è riconducibile al potere di custodia, bensì all’uso dell’animale.
La responsabilità quindi non ricadrebbe su chi custodisce l’animale, ma sul proprietario o chi ne fa uso, indipendentemente dalla custodia. Pertanto , se l’animale viene lasciato presso una pensione per animali, ne risponderebbe sempre il proprietario, e non chi lo custodisce. A favore di questa tesi rivela anzitutto la lettera dell’articolo che cita appunto il proprietario dell’animale o di chi lo ha in uso, e il custode, dal punto di vista tecnico, non fa uso alcuno dell’animale. Tale tesi inoltre, è avvalorata dal fondamento della norma che intende far rispondere dei danni solamente coloro che traggono una qualsiasi utilità dall’animale e non chi lo detenga occasionalmente, magari per far piacere ad un amico, ovvero perché gestisce una pensione per cani. Del resto, non ci sarebbe motivo di addossare la responsabilità al mero custode, quando c’è già un proprietario a rispondere dei danni, salvo che il custode non detenga l’animale per un determinato vantaggio proprio, come, per esempio, nell’ipotesi in cui una persona si faccia prestare un cane per fare la guardia al suo giardino: in questo caso la responsabilità ricadrà sul custode.
Una volta accolta la tesi prevalente, per cui responsabile del danno non è il custode in quanto tale, ma il proprietario o chi trae utilità dall’animale, resta da appurare il concetto di terzo. Si pensi all’animale dato in custodia, e alla circostanza in cui il danneggiato risulti colui che ha la custodia temporanea dell’animale. Secondo una parte della dottrina terzo è chiunque venga danneggiato, e quindi anche il custode dell’animale (ad esempio colui che monta provvisoriamente il cavallo, o colui che gestisce la pensione per cani, o il veterinario che ha in custodia momentanea l’animale da curare).
Secondo la Cassazione, la norma dell’articolo 2052, in base alla quale chi si serve di un animale è responsabile dei danni dallo stesso cagionati per il tempo in cui lo ha in uso, trova il proprio fondamento nel principio per cui chi fa uso dell’animale nell’interesse proprio e per il perseguimento di proprie finalità anche se non economiche, è tenuto a risarcire tutti i danni arrecati a terzi che siano causalmente collegati al suddetto uso.
Si discute se la norma contempli un caso di responsabilità oggettiva, o un caso di responsabilità per colpa (sia pure presunta). Secondo alcuni autori la responsabilità civile presupporrebbe sempre la colpa, essendo eccezionali i casi di responsabilità oggettiva nel nostro ordinamento. La norma in questione, in particolare, non farebbe eccezione a questo principio, in quanto il proprietario dell’animale non risponderebbe sempre e comunque da tutti i danni arrecati dall’animale, potendo dimostrare il caso fortuito. In pratica, il soggetto, provando il caso fortuito, prova la sua mancanza di colpa. Si tratterebbe quindi di un caso di colpa presunta, con un’inversione dell’onere della prova rispetto al principio generale dell’articolo 2043. Secondo la tesi prevalente, invece, si tratterebbe di un caso di responsabilità oggettiva. Provando il caso fortuito, infatti, il soggetto non è ammesso a provare la sua mancanza di colpa, ma l’insussistenza del nesso causale. Per convincersi di ciò, è sufficiente por mente da una parte al fatto che il responsabile, potendo provare solo ed unicamente, positivamente, il caso fortuito, non è liberato anche se prova di aver custodito l’animale con la massima diligenza possibile; infatti il soggetto potrebbe provare il fatto fortuito, ma non necessariamente essere esente da colpa. Il caso fortuito, insomma, in via eccezionale e nel caso specifico dell’art. 2052 cc, incide sul nesso causale, e dunque sull’elemento oggettivo del fatto, non sull’elemento soggettivo. La giurisprudenza aderisce alla tesi oggettiva, affermando che spetta al danneggiato provare l’esistenza del nesso eziologico tra l’animale e l’evento lesivo, mentre il ritenuto responsabile per liberarsi dalla responsabilità, dovrà provare non di essere esente da colpa, bensì l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere il nesso causale. Dal punto di vista pratico, si ritiene che non sia caso fortuito il fatto improvviso e imprevedibile dell’animale, né un suo repentino mutamento di umore, né che rilevi il fatto che l’animale sia stato, in precedenza, sempre tranquillo e mansueto; anche il fatto del terzo è spesso accollato ugualmente a chi si serve dell’animale
Infatti l’imprevedibilità dell’animale non costituisce un caso fortuito che esonera dalla responsabilità il proprietario, atteso che l’imprevedibilità costituisce una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio.
Andrea Milanesi
Responsabile tecnico
Prof. Michele Tossani srl
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